Il piccolo centro di Arpino, frazione di Casoria, si è andato certamente consolidando lungo la Regia Strada delle Puglie, tra la seconda metà del Cinquecento e i primi del Seicento, quando la nuova e importante arteria iniziò ad essere sempre più trafficata. Ma quali erano le sue origini?

Arpino era solo una delle tante località – grandi masserie intorno alle quali ruotava l’organizzazione del lavoro delle campagne circostanti – dell’area orientale di Napoli, a ridosso del “territorium padulanum” ovvero delle “padule”, e più in particolare di un vasto distretto anticamente conosciuto come “territorium molendini”, ovvero territorio dei mulini, o ancora più comunemente “dell’acqua dei mulini”: una grande area attraversata dall’antichissimo acquedotto “della Bolla”, che dalle pendici del monte Somma portava l’acqua fino a Napoli (a Santa Caterina a Formiello, presso Porta Capuana), e che scorreva in parte sotterraneo e in parte tra le campagne, dando vita a diversi fiumi – tra cui quello chiamato Sebeto, come il mitico fiume delle origini di Neapolis – e canali, che muovevano una serie di mulini, che macinavano ad uso e consumo della capitale.

Trattandosi di una piccola località di campagna, non esiste una grande documentazione su Arpino, ma qualche traccia può certamente aiutare a chiarire qualcosa sulle sue origini. Innanzitutto, il toponimo non ha alcuno legame con la Sant’Arpino della zona atellana; né tanto meno con Sant’Agrippino, a cui pure è stato erroneamente accostato, senza alcuna testimonianza storica al riguardo. Un atto notarile del 1477 è invece il primo documento – finora conosciuto – in cui compare il toponimo «ad Arpino», accanto alla località «ad Padule alias ala torre de lo ciminarcha».

«Padule» (da cui il nome degli abitanti, “padulani”) è ovviamente un riferimento ai territori paludosi dell’area circostante, attraversata dall’antico acquedotto e da fiumi e canali; mentre la «torre de lo ciminarcha» (che sopravvive nell’attuale toponimo della zona di Cimiliarco) si riferisce ad un antichissimo legame con l’Arcivescovado di Napoli. Il Cimiliarca era infatti un canonico del duomo che presiedeva ed amministrava i beni di un antico collegio di sacerdoti, il «Capitolo degli Ebdomadari», ed era titolare della chiesa di Santa Maria ad Cymbros, nella piazza della Vicaria Vecchia; nonché di una cappella dedicata ai santi Nicandro e Marciano che anticamente si trovava «intus rus eiusdem chimiliarcatus in villa Casoriae», cioè nelle campagne del villaggio di Casoria.

Una delle descrizioni più interessanti si trova in un documento del 1520, che parla di una masseria della nobile famiglia Acquaviva, con 26 moggia di terra coltivate ad alberi e a viti di aglianico, situata «in pertinenciis Neapolis supra Podium Reale et proprie ubi dicitur ad Arpino, iuxta flumen et aquam descendentem a molendino quod vocatur de la Nunciata, iuxta territorium dicti molendini»: e dunque, nelle pertinenze di Napoli, sopra Poggio Reale, e propriamente dove si dice “ad Arpino”, nei pressi del fiume e dell’acqua che scende dal Mulino dell’Annunziata, e nei pressi della zona dei mulini.

Ma da dove viene questo toponimo di Arpino? O meglio, come si legge letteralmente, «ad Arpino»? Sfogliando i documenti più antichi, l’unica ipotesi che si riesce ad avanzare è che possa trattarsi, molto semplicemente, di una corruzione – dovuta alla parlata guasta di campagna e certamente all’abbandono e all’oblio della zona – dell’antico toponimo di «San Martino» (San Martino > ad Arpino), documentato a Casoria ai primi del Trecento. Da una pergamena del 1336, infatti, sappiamo con certezza che all’epoca di Roberto d’Angiò esisteva nel territorio di Casoria una località «ad illu pontone Sancti Martini», così chiamata perché proprietà del monastero di San Martino.

Dall’atto non è semplice capire con certezza dove si trovasse «San Martino» (anche se «Pontone» sembrerebbe indicare un confine, una delimitazione territoriale che ben si adatterebbe alla posizione di Arpino). Ma un indizio veramente illuminante è offerto da un documento ancora più antico, degli anni 994-995, in cui – tra i proprietari confinanti di un fondo di Licignano nei pressi dei resti dell’antico acquedotto romano – si nomina per la prima volta una chiesa dal titolo molto particolare: la «ecclesia Sancti Martini iuris heredis Kaloleoni». Non sappiamo chi siano i proprietari di questa antichissima chiesa di San Martino, ma certamente il nome del loro avo, Kaloleone, ci permette finalmente di dare un senso agli altrettanto antichissimi – quanto finora oscuri – toponimi del «Galione» e del «Galioncello»: la grande area di 110 moggia di terra, proprietà della Universitas di Casoria (anche se ricadente nel territorio di Ponticelli), alla quale si accede proprio dal cuore di Arpino, svoltando ad una cappella «a pontone» con via delle Puglie.

Seppure in mancanza di una più solida documentazione, mettendo in fila gli indizi, emerge un quadro verosimile: «ad Arpino» potrebbe essere una forma corrotta e traviata dell’antichissimo toponimo di «San Martino», legato a Kaloleone – il “territorium molendini” di Casoria – e sopravvissuto almeno fino alla prima metà del Trecento. Il cognome “de Martino”, uno dei più antichi di Casoria, documentato già tra i vassalli del Duecento, potrebbe avere origine proprio da San Martino.

Ma perché fu dimenticato e abbandonato? Innanzitutto perché era una zona paludosa, che richiedeva manutenzione e bonifiche, che erano già scarse all’epoca e furono poi impossibili per quasi un secolo, a cavallo tra Tre e Quattrocento, a causa delle guerre di successione angioine che lasciarono l’amministrazione del Regno allo sbando, fino al passaggio agli Aragonesi nel 1442. E significativo è soprattutto che «ad Arpino» compaia nel 1477: da circa un decennio, infatti, l’amministrazione aragonese aveva messo mano ad una serie di interventi di bonifica, dal Clanis (i Regi Lagni) a nord, alla riorganizzazione dell’area orientale, delle Paludi e dei mulini (nel 1485 il canale Rubeolo sarà trasformato nel “fiume reale”), che culminerà nella creazione della splendida Villa di Poggioreale.